La trappola delle certezze: quando le opinioni diventano prigioni mentali

Qualche giorno fa su Facebook ho raccontato di un episodio che mi ha profondamente scosso: un commento innocuo, su una partita di calcio, trasformato in un’arena di violenza verbale. Più volte mi sono chiesto se valga ancora la pena di stare in questi spazi.
Per questo voglio andare più a fondo. Perché quello che è successo non è un caso isolato, ma il sintomo di qualcosa di molto più profondo: abbiamo perso la capacità di dialogare nel disaccordo.
E, soprattutto, abbiamo dimenticato una verità fondamentale che già Socrate aveva compreso 2500 anni fa: sapere di non sapere è l’inizio della vera conoscenza.
La mappa che confondiamo con il mondo reale
Ciascuno di noi si costruisce nel tempo una propria mappa del mondo: un insieme di credenze, valori, interpretazioni attraverso cui leggiamo la realtà.
Questa mappa si forma lentamente, strato dopo strato, a partire dall’infanzia. Le opinioni dei genitori sulla religione, le passioni coltivate da giovani, i traumi vissuti, i professori che ci hanno segnato, le letture che ci hanno formato.
Più un’opinione affonda le radici in profondità nella nostra mappa, più quella convinzione diventa parte della nostra identità. E quando qualcuno mette in discussione una di queste convinzioni fondanti, non stiamo solo difendendo un’idea: stiamo difendendo noi stessi, la nostra persona nella sua interezza.
Il problema? Confondiamo costantemente la nostra mappa con il mondo reale. La nostra interpretazione non coincide con i fatti oggettivi. Ma ci comportiamo come se fosse così.
L’illusione della verità personale
Sui social media, questa dinamica si amplifica in modo drammatico. Gli algoritmi creano silos informativi su misura: ci mostrano contenuti allineati alle nostre preferenze, persone che condividono le nostre opinioni, notizie che rinforzano quello che già crediamo.
Viviamo in bolle digitali dove la nostra visione del mondo viene costantemente validata e ripetuta. Il risultato? Finiamo per convincerci che il nostro modo di vedere le cose sia l’unico modo valido, l’unico razionale, l’unico vero.
E quando incontriamo qualcuno che vede diversamente, non percepiamo un’opportunità di crescita. Percepiamo una minaccia.
Ecco perché anche il commento più gentile, più argomentato, più ricco di dati può scatenare reazioni aggressive. Non stiamo discutendo di calcio, politica o vaccini. Stiamo difendendo la nostra identità, la nostra mappa del mondo, il nostro bisogno di avere ragione per sentirci al sicuro.
Il coraggio di ammettere di non sapere
Socrate ci ha offerto un insegnamento prezioso: invece di dimostrare chi aveva torto, poneva domande che permettevano alle persone di scoprire da sole le falle nel loro ragionamento.
“Sapere di non sapere” non significa relativismo pigro o indifferenza verso la verità. È riconoscere che la nostra mappa è sempre incompleta, imperfetta, migliorabile. Che possiamo migliorarla, ampliarla, a volte persino stravolgerla del tutto.
Ma questo richiede un coraggio immenso. Perché significa accettare l’imbarazzo dell’errore, l’umiliazione di aver preso una direzione sbagliata, la fatica di ricostruire ciò che pensavamo fosse solido.
Quante volte, sui social o nella vita, sentiamo qualcuno dire sinceramente: “Non lo so. Devo pensarci”? Oppure: “Mi sono sbagliato, grazie per avermi fatto notare questa prospettiva”?
Quasi mai. Perché il peso di ammettere incertezza supera di gran lunga quello della disonestà intellettuale.
Creare spazi sicuri per affrontare un dubbio
Ricercare la verità, allora, non significa far prevalere la nostra opinione. Significa esplorare continuamente la nostra mappa, riconoscerne i confini, accettarne le imperfezioni. E, soprattutto, significa dialogare con gli altri non per vincere, ma per scoprire insieme dove le nostre mappe sono incomplete.
Ma questo è possibile solo dove rivedere le proprie posizioni viene valorizzato, non ridicolizzato. Dove riconoscere i propri limiti è segno di intelligenza, non di fragilità.
I social media, oggi, sono esattamente l’opposto di questo. Sono arene dove ogni esitazione è debolezza, ogni dubbio è vulnerabilità da sfruttare, ogni cambiamento di opinione è opportunismo da sbeffeggiare.
E così, invece di evolverci attraverso il confronto, ci irrigidiamo nelle nostre posizioni. Costruiamo fortezze – che in realtà sono prigioni – intorno alle nostre convinzioni. E chiamiamo “coerenza” quella che è, in realtà, paura di mettersi in discussione.
Una domanda per voi
Vi faccio una domanda, e vi chiedo di rispondere con onestà: quando è stata l’ultima volta che avete cambiato idea su qualcosa di importante?
Non parlo di preferenze banali (la pizzeria, il film da vedere), ma di convinzioni profonde. Politiche, etiche, esistenziali. E se vi è successo: quanto è stato difficile ammetterlo pubblicamente?
La saggezza non sta nell’avere la mappa migliore degli altri. Sta nel capire che la nostra mappa sarà sempre migliorabile. Che il dialogo con chi vede diversamente non è una battaglia da vincere, ma un’occasione per accorgerci dei territori che non abbiamo ancora esplorato.
Per esempio Remontada.it, progetto a cui sto lavorando e che si sta evolvendo giorno per giorno, vuole essere anche questo: uno spazio dove è possibile mettere in discussione le proprie certezze senza sentirsi giudicati. Dove il processo conta più del risultato. Dove ammettere di non sapere non è debolezza, ma l’inizio di una rimonta vera.
Perché le rimonte più difficili non si fanno sul campo. Si fanno dentro di noi, nella nostra mente, quando troviamo il coraggio di ridisegnare la nostra mappa del mondo.
E voi? Siete disposti a rimettere in discussione qualche certezza?
O preferite restare al sicuro nei vostri confini, anche quando la mappa vi dice che il territorio è cambiato?
La conversazione inizia qui, nei commenti. E stavolta, proviamo a farla diversamente. 😉
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