La “cultura del fallimento” è il vero fallimento

Siamo cresciuti nella convinzione che sbagliando si impara. Cadere ogni tanto è normale, l’importante è rialzarsi. E fin qui siamo d’accordo.
Ma da anni, nel frattempo, in qualità di imprenditori ci viene propinata la cosiddetta “cultura del fallimento”. Che è ben altra cosa.
Che cos’è la cultura del fallimento
Il fallimento e l’innovazione sono gemelli inseparabili. Per innovare bisogna sperimentare e se si sa in anticipo che le cose andranno bene non è una vera sperimentazione.
Queste parole sono di Jeff Bezos, fondatore e ceo di Amazon. Tutti abbiamo visto la sua foto nel garage, con una scrivania piena di scartoffie e sul muro un cartello scalcinato con la scritta amazon.com.
Jeff oggi, oltre a possedere il più grande e-commerce del mondo, è fondatore di Blue Origin, start-up per voli spaziali, e proprietario del The Washington Post.
La sua storia è quella di un ingegnere elettronico che ha un buon lavoro e lo molla, rischiando tutto, per fondare la sua impresa. Nel giro di pochi anni il progetto esplode, arrivando a diventare un’innovazione epocale.
Il caro Jeff, come molti altri guru americani, è uno dei promotori della cosiddetta cultura del fallimento, che vede l’errore e la caduta come a un’eventualità da avere sempre ben chiara davanti a noi. Quasi da mettere in conto per lanciarsi in un’avventura di business.
E questo è vero: chi meglio dell’imprenditore conosce il rischio?
Quando nasce qualcosa di nuovo, tutto è una grande scommessa, un po’ come quando incontriamo una persona e iniziamo a frequentarla.
Ma in un Paese come l’Italia, è davvero possibile fallire per poi crescere e realizzarsi come imprenditori?
Oppure è qualcosa che si può evitare?
Fallire in Italia
Pronunciala ad alta voce quella parola. Probabilmente ti sentirai già un po’ depresso, svuotato, demotivato.
Nel nostro Paese fallire non è qualcosa che capita e si supera. Spesso è il baratro, o almeno è visto in questo modo dalle famiglie, dalla politica, dalla finanza. Fallire vuol dire non essere riusciti e dover abbandonare una strada. Non è un passaggio transitorio, ma un dato immutabile e netto.
Durante i miei corsi e le mie consulenze, dico agli imprenditori che le grandi frasi motivazionali dei businessman americani sono di grande ispirazione, suonano davvero bene, ma sono poco calzanti al contesto italiano.
Questa “cultura del fallimento” tout-court appartiene a chi dice cose che le persone vogliono sentirsi dire nel momento in cui sono più deboli, pur di vendere libri, corsi e consulenze ben distanti da un approccio scientifico e dal nostro ecosistema.
E così, per convenienza, non contestualizzano – in maniera adeguata – frasi come questa di Elon Musk:
“Il fallimento non è un’opzione. Se non fallisci, non stai innovando abbastanza”.
Questa razza di coach e consulenti, sfrutta sempre lo stesso “storytelling” copia-incolla per cui l’imprenditore di turno fallisce una, due, tre volte per poi fare il colpaccio e diventare milionario.
Peccato non venga mai raccontata l’altra parte della storiella, quella della grande maggioranza delle persone che dal sogno (a occhi chiusi) di diventare imprenditori sono andate a far di tutto, tranne che un lavoro da sogno.
La nostra cultura, il contesto economico, sociale e burocratico del nostro Paese sono molto, ma molto diversi da quelli degli USA: anche la legislazione americana mette in conto la possibilità che un’azienda possa incontrare delle difficoltà, le startup hanno meno problemi a trovare investitori, i capitali che circolano sono di gran lunga superiori e chi decide di avviare un’impresa viene spronato.
In Italia, purtroppo, questo non succede. Per mille motivi, che non sto qui ad approfondire. In Italia, fallire è un’opzione da considerare, ma da tenere ben lontana.
Per me – sia chiaro – si può fallire, perché nulla e nessuno è infallibile, ma si può e si deve anche lavorare per evitare il baratro.
L’alternativa alla “cultura del fallimento”
Sperimentare, sbagliare, aggiustare il tiro. Sono cose che fanno ogni giorno gli imprenditori, soprattutto quelli illuminati. Ma addirittura fallire, meglio di no.
Starai pensando che conosco l’incantesimo che può evitare l’errore fatale. In realtà no, ma so che agendo in maniera scientifica, a piccoli passi, con il supporto dei professionisti giusti il numero degli errori si può diminuire drasticamente, scongiurando un clamoroso fallimento.
Infatti, se andiamo ad analizzare i motivi principali per cui una un’azienda avviata smette di crescere o una startup fallisce in meno di 12 mesi, emerge una sequenza incredibile di variabili che potevano essere gestite meglio, grazie a un’accurata analisi e monitoraggio, con un approccio olistico nei confronti della propria creatura aziendale, oltre che ovviamente, attraverso una seria progettazione strategica.
Qualche esempio di variabile che conduce al fallimento? Te ne propongo ben 12!
1. Produrre qualcosa solo perché lo si sa creare, ma che non serve a nessuno, non risolve problemi reali e non soddisfa bisogni concreti. Se si è capaci di costruire sedie, non è detto che ci sia bisogno di più sedie, a meno che abbiano qualcosa di realmente migliorativo, partendo per esempio da un’esperienza personale.
2. Marketing fatto male e di fretta. Troppo spesso si passa subito all’azione e ci si butta online senza un valido motivo, costruendo siti vetrina inutili o e-commerce improvvisati, pubblicando contenuti su Instagram quando il proprio pubblico non è lì, o acquistando spazi pubblicitari alla rinfusa perché lo “fanno i competitor”. Che poi, in questi casi, si individuano quasi sempre i competitor sbagliati.
3. Dal punto 2 conseguono gli altri fattori che portano al fallimento come confusione, brand positioning fumoso, assenza di una Value Proposition, poca chiarezza di obiettivi.
4. E ancora: analisi superficiale di quello che i competitor già offrono e assenza di monitoraggio dei cambiamenti in atto nel mercato.
5. Innamoramento per le vanity metrics e poca attenzione alle KPI (Key Perfomance Indicators) che davvero contano, oltre che all’assenza di interpretazione dei dati che possono essere raccolti in vari modi, come interviste o quelli che definisco “esperimenti tattici”. Numeri e valori non vanno solo letti, vanno capiti ed è solo grazie a questo che si possono fare scelte migliori.
6. Competenze scarse e assenza di formazione costante e continua.
7. Eccessiva concentrazione sul fatturato, scarsa attenzione ai costi e quindi nei confronti di quel valore che conta davvero: il margine di profitto.
8. Arrivare al burnout. In merito a questo, ti consiglio di leggere l’articolo “Uscire dalle zone di comfort non basta: se sei un imprenditore, hai bisogno di espanderle”.
9. Poca attenzione nei confronti della clientela, sia prima, sia durante che dopo un acquisto, perché spesso si ha la mente offuscata dall’avere sempre più nuovi clienti, senza rendersi conto che mantenere un cliente già acquisito è meno oneroso e più remunerativo di prenderne uno nuovo. Per intenderci: bisogna prestare molta più attenzione al LTV (Lifetime Value) rispetto a quanto che normalmente si fa.
10. Sperare che si possa costruire facilmente un’azienda lavorando da una spiaggia a Bali o da un attico a Dubai. O meglio, si può, ma occorre sudare… sudare… sudare… e non semplicemente perchè si sta prendendo il sole su un lettino. Bisogna prima per creare un business che gira e poi ci si può permettere di pensare allo stile di vita. Confondere infatti uno stile di vita rispetto al creare un business che si regge da solo, sulle proprio gambe, è una delle cose più pericolose che ci sia.
11. Credere che fare l’imprenditore sia un secondo lavoro e pensare secondo una visione di breve periodo. Una buona progettazione demolisce un approccio così superficiale e pericoloso.
12. Pensare che il digitale nel 2021 sia solo un’alternativa: oggi più che mai, avere consapevolezza e cultura digitale è la discriminante obbligata per cogliere opportunità che le dinamiche del mondo fisico, da solo, non sono più in grado di garantire.
La lista è ancora molto lunga e ne potremmo parlare per ore, ma io preferisco l’azione e quindi se vuoi sapere come crescere, scrivimi adesso per una consulenza.
Cultura della Consapevolezza e della Realizzazione
Detto questo, pensiamo ad accrescere la consapevolezza dei giovani startupper e di molti imprenditori di età più avanzata, a favore di una cultura della analisi, della scientificità per evitare di vedere ancora gente buttarsi da un burrone in maniera inconsapevole.
Proprio per questo, con il mio Metodo Human Marketing, dedico ogni giorno all’analisi delle variabili di mercato e delle persone. Quando un cliente arriva da me, la prima cosa che chiedo è di parlare. Raccontarsi, raccontare la sua azienda, capire cosa lo fa andare avanti e che cosa lo sta bloccando.
Studio il contesto interno ed esterno alle aziende, procedo allo sviluppo di un’identità credibile, e agisco solo dopo aver definito una strategia in grado di guidare le successive attività operative, per la creazione di un MVP (Minimum Viable Product) o l’avviamento di quelli che chiamo “Esperimenti Tattici”.
Per concludere, avviare un’impresa oggi è un atto di coraggio. Ma richiede anche competenze, onestà intellettuale, lavoro di squadra, analisi, ricerca, studio e tanto tanto impegno per creare modelli di business che funzionano.
Certo, l’errore – anche quello un po’ più grave – ci può essere, ma non è il requisito fondamentale per il successo. Lo vedo più come una prova, un’esperienza, un’eventualità da cui riprendere coraggio e da allontanare, poi, con i nuovi strumenti acquisiti.
Quindi, molto meglio della cultura del fallimento, propongo la Cultura della Realizzazione. Quella che grazie alla scienza e all’arte del marketing, ci dona serenità, voglia di fare e grandi soddisfazioni per creare delle vere e proprie “Dream Company”.
Se vuoi far crescere la tua attività, contattami subito per una consulenza o un corso di formazione! Fai presto, perchè ho molte richieste e non riesco ad accettare tutti.
Ad maiora.